Atmosfera misteriosa, silenzio nostalgico e una punta di amarezza aleggiano nel villaggio protagonista di questo nostro primo volume, il villaggio Asproni, nel comune di Gonnesa.
Sarà perché sono cresciuta nei pressi di una zona ex industriale nel Sulcis ma posso proprio dire di essere appassionata di archeologia industriale e luoghi abbandonati. Con i ragazzini del vicinato girovagare tra strane costruzioni e curiosare tra edifici in stato di abbandono era la nostra dose quotidiana di adrenalina. Oggi il mio quartiere ha cambiato faccia, almeno in parte, ed è in via di nuova evoluzione. Resta con me quella curiosità di indagare luoghi simili e in Sardegna l’archeologia industriale non manca. Specialmente la tipologia mineraria.
Tantissime le miniere che nel corso nel tempo sono state progressivamente chiuse, dismesse, ma perlopiù abbandonate. Semplicemente abbandonate, perché non più convenienti o sufficientemente competitive con quelle moderne. Molte di queste, se non fosse per il logorio del tempo e degli agenti esterni che piano piano le hanno consumate, sarebbero intatte. Infatti per alcuni di questi luoghi si parla oggi di villaggi fantasma. Ma se tali villaggi sono oggi disabitati (o quasi, vedremo nei prossimi “volumi” a quali mi riferisco) passeggiando tra quegli edifici fatiscenti è possibile immaginare quando la vita e il turbinio delle giornate lavorative riempivano quel silenzio per noi piacevole quanto sconcertante.
Infatti ciò che a noi risulta affascinante rappresenta per coloro che vi hanno vissuto e lavorato un capitolo gioioso e doloroso allo stesso tempo.
Atmosfera misteriosa, silenzio nostalgico e una punta di amarezza aleggiano nel villaggio protagonista del nostro primo volume: il villaggio Asproni, nel territorio di Gonnesa, sull’altopiano di San Giorgio.
Considerato uno dei più suggestivi tra i villaggi abbandonati sardi, pensate, era un tempo abitato da una comunità di circa duecento/trecento persone, tra lavoratori della vicina miniera Sedda Modditzi e le loro famiglie. Anche le donne spesso venivano coinvolte nel lavoro della miniera. In particolare nelle fasi post-estrazione che si svolgevano in superficie, le donne passavano al setaccio i materiali rinvenuti cernendoli e selezionandoli manualmente. Possiamo dire che tutta la loro vita ruotasse intorno al lavoro e alla famiglia: ogni ingranaggio ben oleato dell’organizzazione doveva ottimizzare ruoli e tempi per mantenere alto il regime di produzione. Lo testimonia l’intero progetto che vede il sito minerario e il villaggio a poca distanza l’uno dall’altro, per facilitare gli spostamenti dei dipendenti.
La miniera Sedda Modditzi (letteralmente tradotto dal sardo sella del monte/pianoro del lentisco) ha avuto una storia un po’ complicata specie agli inizi: prima che l’ingegner Giorgio Asproni la rilevasse nel 1870 per estrarre calamina (minerale usato per ottenere zinco) infatti si era provato ad estrarre l’argento ma senza successo. Asproni invece determinò il futuro dell’intera area portandola a livelli d’eccellenza con la costruzione nel giro di pochi anni della laveria, dei forni di calcinazione per trattare il minerale estratto, e degli edifici che ancora oggi compongono il borgo dei minatori. Grazie alla direzione caparbia di Asproni, a Sedda Modditzi si arrivò a produrre centomila tonnellate di calamina. Ma nonostante l’impegno di dirigenti e soprattutto il duro lavoro dei minatori, la miniera presto entrò in crisi: già dagli anni Venti del Novecento per via degli impianti obsoleti e il costo insostenibile per sostituirli iniziarono le difficoltà. Per non menzionare il primato infelice degli infortuni nelle gallerie, che le valsero la denominazione di miniera dei mutilati.
La crisi venne scansata nel 1936. In quell’anno Asproni morì e la miniera fu successivamente venduta alla Società Monteponi. I finanziamenti elargiti che salvarono altre miniere però non bastarono per risollevare definitivamente le sorti di Sedda Modditzi e nel marzo 1960 la concessione passò alla Società MetalSulcis. Questa inserì la miniera all’interno di un grande progetto di rinnovo che l’avrebbe collegata alla miniera di Campo Pisano. In realtà si trattò perlopiù di un progetto di facciata e la miniera di Sedda Modditzi non più conveniente venne chiuse nel 1963 e abbandonata.
Oggi ciò che vediamo ancora in piedi del complesso minerario risale a tutte le gestioni succedutesi nei decenni. Con un attenta osservazione e un pizzico di immaginazione si riesce a individuare che il villaggio oltre alle abitazioni comprende(va) l’elegante villetta su due piani di Asproni, gli edifici per la direzione ben riconoscibili dalle insegne in mattoni, uno spaccio, una piccola scuola e una chiesa. I terreni intorno inoltre erano dedicati alla coltivazione e al taglio dei boschi vicini, come testimonia l’attuale proprietaria dell’area. Ciò contribuiva al benessere e sostentamento degli abitanti e a contenere i costi della vita. Alberi secolari sono ancora presenti nell’area e la vegetazione sta riprendendosi il suo spazio tra le rovine di un villaggio un tempo tanto vivo. Un sistema sinergico ben organizzato ed equilibrato, fino al suo triste abbandono.
BONUS: a pochi minuti di cammino dal villaggio, nella direzione opposta alla miniera, si trova una struttura gigante che per dimensioni e dettagli architettonici ricorda un castello medievale, e per gli spazi ampi una specie di cattedrale, si tratta de “sa macchina beccia” (dal sardo “la macchina vecchia”). Si tratta in realtà del pozzo di estrazione denominato Santa Barbara e costruito nel 1870, ma per tutti oggi è sa macchina beccia perché l’edificio ospitava una grossa macchina a vapore che serviva a sollevare il minerale estratto in profondità dal sottosuolo. La vera macchina beccia attualmente è sparita e restano il suo guscio un po’ ammaccato e la ciminiera intatta. L’autore di tale costruzione fu l’ingegnere Adolfo Pellegrini, il quale probabilmente voleva stupire o comunque rendere iconica la sua opera a dir poco insolita per il contesto minerario. E ci riuscì alla perfezione. E’ ancora oggi una struttura che dal vivo lascia senza parole, anche per la location panoramica.